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lunedì 19 luglio 2021

ALLINEAMENTO AZIENDALE: FATTORE CHIAVE PER IL SUCCESSO DI UN’ORGANIZZAZIONE

BUSINESS E STRATEGIA

di Maria Lanzetta

E’ noto a molti - specie a chi è alla guida di un’azienda o di  un dipartimento - come all’interno dei comitati direzionali e nei CDA si vada spesso muniti di “coltello in mezzo ai denti” e, ancor peggio,  di come, al di là di quello che si condivide “sulla carta” durante riunioni fiume, ognuno poi vada avanti con le proprie idee, non seguendo un possibile piano concordato.

Sempre più spesso si parla di allineamento aziendale, in modo particolare a livello di management, ma nella realtà sono ancora tantissime oggi le aziende che fanno un’enorme fatica ad applicarlo. E’ fin troppo ovvio evidenziare come l'allineamento organizzativo costituisca una dei fattori chiave per un successo aziendale duraturo nel tempo. 

George Labovitz, autore del libro  “The Power of Alignment” (edizione John Wiley and Sons), definisce l'allineamento come "quello stato ottimale in cui strategia, dipendenti, clienti e processi chiave lavorano in concerto per sostenere la crescita e accrescere i profitti". Secondo Labovitz, infatti, le organizzazioni allineate beneficiano di una maggiore soddisfazione di clienti e dipendenti e producono risultati migliori per tutti gli stakeholder, sia a livello di gestione, sia a livello di execution, ricavandone poi  un reale vantaggio competitivo per l’azienda stessa.
Ma cosa vuol dire nella pratica azienda allineata? Di fatto consiste nella capacità da parte del management di mettere in piedi un’organizzazione in cui ciascuno, sia a livello direzionale, sia operativo, sia ben consapevole di quali siano  le finalità del business e gli obiettivi aziendali, conosca perfettamente quali siano i valori su cui si fonda l'azienda e come questi prendano forma concretamente all’interno del team e delle strategie aziendali. Solo così ciascun collaboratore potrà concorrere in modo attivo e proattivo al successo della propria organizzazione, che diventerà il successo e il benessere di tutti e di ciascuno.

Ma in che me modo si può mettere in piedi un’organizzazione allineata? Beh, innanzitutto, sembrerebbe scontato, è necessario che l’allineamento sia a livello di direzione e questo forse è lo scoglio più duro da superare: riuscire a mettere sulla “stessa lunghezza d’onda” un team di manager e dirigenti, ciascuno con la propria visione e le proprie convinzioni, talora poco disposti e predisposti al confronto e al mettersi in discussione, è sicuramente fondamentale per qualsiasi strategia da adottare all’interno di un’azienda. Questo significa che prima di partire e passare all’operatività i comitati direzionali devono aver condiviso e in qualche modo “sottoscritto”, la mission, la vision e gli obiettivi aziendali; dopo di ché ciascuno li condividerà con i rispettivi dipartimenti e team, attraverso una comunicazione trasparente e assertiva, disposti anche ad ascoltare le obiezioni di chi in qualche modo dissente. Una volta che ogni singolo dipendente, a qualsiasi livello, avrà chiara la direzione in cui vuole andare l’azienda e i traguardi che vuole raggiungere, sarà molto più semplice per il manager ottenere l’engagement di ogni membro del team nell’operatività quotidiana.

Di base quindi parleremo di allineamento orizzontale e trasversale fra chi è alla guida dell’azienda, che non deve avere nessuna zona d’ombra e di allineamento verticale tra ciascun manager e il proprio team, a scalare. Va da sé che se si riesce ad avere la maturità, la trasparenza e l’onesta intellettuale ai “piani alti”, per arrivare ad un allineamento di strategia, sarà molto più semplice riproporre questo modello all’interno dei propri team, ottenendo così una modalità operativa armonica, focalizzata e quindi più produttiva.

Esiste un’infinita quantità di analisi  condotte su diverse tipologie e campionature di aziende, che evidenziano come in moltissime realtà la maggior parte dei dipendenti non conosca neanche quali siano gli obiettivi a breve termine della propria azienda, così come, di contro, in altri studi emerge che con un efficace allineamento aziendale, la produttività può aumentare in modo esponenziale.
Il processo deve dunque partire dall’alto, il disallineamento e l’assenza di armonia tra i manager viene inevitabilmente percepito ai vari livelli, creando, con effetto domino, un senso di sfiducia nell’azienda, malessere e disorientamento, con conseguente impatto negativo sulla produttività e sull’efficienza. 

Per tenere sotto controllo l'allineamento e per comprendere in quale aree ci siano delle criticità, può essere molto utile realizzare degli assessment periodici e delle survey interne, con l'obiettivo di monitorare il livello generale di allineamento,  compararne il grado all'interno delle varie unità organizzative e, nel caso, individuare in modo tempestivo eventuali discostamenti,  con l’obiettivo di applicare interventi mirati e azioni correttive immediate finalizzate al miglioramento, una volta che sono stati identificati i punti deboli.

Aumento del rendimento, morale più alto, percentuale più bassa del turnover aziendale, maggiore efficienza nel raggiungimento degli obiettivi, capacità di prendere decisioni importanti più velocemente e capacità di adattarsi più agilmente ai cambiamenti sono solo alcuni dei numerosi vantaggi derivanti da un allineamento aziendale che parte a livello direzionale e si trasmette a cascata, in modo virtuoso, nei diversi dipartimenti e a seguire all’interno dei singoli team.

Articolo analogo anche su: NewsImpresa - MindUp Pentaconsulting


venerdì 28 maggio 2021

LA FORMAZIONE COME ABILITATORE DEL BUSINESS

BUSINESS E STRATEGIA


di Maria Lanzetta

Pensare che la formazione faccia parte di un periodo specifico e circoscritto della nostra vita e del nostro percorso professionale è opinione molto diffusa più di quanto si pensi, cosa che inevitabilmente porta a un atteggiamento rinunciatario verso qualsiasi tipo di sfida. In realtà è uno degli strumenti più potente per diventare e rimanere leader.

Formarsi e far crescere costantemente le nostre competenze e conoscenze è un percorso che ci deve accompagnare finché siamo in vita. Di fatto, è l’unico modo per sopravvivere in un mondo in continua evoluzione, in un contesto socio-economico in costante trasformazione.

Entrando più nello specifico del mondo del lavoro, la formazione deve rappresentare un diritto e un dovere da parte di qualsiasi individuo: che sia un impiegato, manager o dirigente di un’azienda, un libero professionista o un operaio; la formazione costante e progressiva rappresenta uno strumento prezioso per avere successo, ottenere la massima efficienza e generare business.

Per un’azienda la formazione delle proprie risorse è uno dei migliori investimenti che, se fatto con criterio, garantisce un enorme ritorno e contribuisce a una straordinaria crescita del proprio valore.

L’apprendimento continuo è fondamentale per la performance, la motivazione, l’entusiasmo e l’impegno dei propri collaboratori e se, in modo miope, si relega la formazione a quelle attività non necessarie, non urgenti e non indispensabili, si rischia di trovarsi delle persone poco motivate, prive di iniziativa e di creatività, incapaci di essere quella forza propulsiva di cui necessita un’azienda, per essere competitiva e avere una posizione di leadership nel proprio mercato di riferimento.

Come rendere efficace un percorso formativo

Tuttavia la formazione va organizzata in modo strutturato e non può essere lasciata né all’iniziativa dei singoli, né erogata in modo indiscriminato senza aver chiare le modalità e gli obiettivi di crescita, soprattutto va programmata in considerazione degli skill di ciascun collaboratore, della funzione che questo ricopre e dell’ambito in cui opera. Pertanto, affinché la formazione aziendale sia efficace e raggiunga gli obiettivi prefissati, è essenziale studiare una strategia ad hoc e, soprattutto, deve poter evidenziare i primi risultati nel breve e medio termine.

Si deve necessariamente partire dall’analisi dei punti forza e di debolezza dell’azienda e degli obiettivi che essa vuole e deve raggiungere;  si analizzano gli hard skill dei singoli individui, quindi le loro competenze e le expertise, così come i soft skill, ovvero le attitudine e le potenzialità, andando a definire le aree sui cui intervenire, le capacità e le competenze da migliorare: alla luce di questo,  si stabiliscono i diversi percorsi formativi.

In quest’ottica è fondamentale saper individuare l’ente o la società di consulenza e formazione, capace di affiancare e accompagnare l’azienda in questo percorso di crescita e sviluppo, che abbia le sue peculiarità e una metodologia ben strutturata applicabile in modo appropriato, a seconda se si opterà per formazione in aula, on-line o sul campo (FSC).

La formazione in aula indubbiamente offre l’opportunità di avere un confronto diretto con il docente e con il resto del gruppo, ma è fondamentale che la modalità frontale sia quanto più stimolante e interattiva, utilizzando strumenti quali “gioco di ruoli”, analisi di casi concreti, simulazioni aziendali, attività in piccoli gruppi all’interno di workshop o masterclass.

La formazione on-line, di cui oggi date le circostanze se ne è fatto tantissimo uso – e lasciatemi dire anche abuso -, offre indubbiamente il grande vantaggio di essere più fruibile, laddove si presentino una serie di problematiche legate alla logistica, per es. distanza e difficoltà ad allontanarsi dal luogo di lavoro, ovviamente con un grande risparmio di tempo e contenimento costi. Indubbiamente presenta il limite di creare meno empatia sia tra il docente e gli allievi, sia tra gli allievi stessi.

La formazione sul campo (FSC)  rappresenta una fase imprescindibile in un iter formativo: passando attraverso un percorso esperienziale e pragmatico, è possibile “testare” sin da subito le proprie capacità e le proprie attitudini, individuando con l’aiuto del docente le aree di miglioramento sia su stessi, sia nell’ambito aziendale in cui il singolo individuo opera.

Quanto è importante il ruolo del docente?

In tutto ciò il ruolo del docente è fondamentale e fa la differenza. Innanzitutto è indispensabile  che questo abbia tutte le competenze e la preparazione per svolgere questa funzione – non ci si improvvisa insegnante – e che oltre a conoscere le diverse metodologie didattiche che deciderà di adottare, abbia quella capacità “maieutica” – rifacendoci alla teoria di Socrate – in grado di far venire fuori tutto il potenziale, spesso inespresso o rimasto in fase embrionale che un individuo ha dentro, attraverso un dialogo e confronto con l’allievo e un ascolto attento.  Questo si coniuga con il grande valore aggiunto di un docente che abbia una lunga esperienza di management e di organizzazione aziendale che sia in grado di trasferire alla classe, un proprio vissuto da condividere e anche una capacità empatica di entrare nel mood dell’azienda e di cogliere la spinta motivazionale degli allievi. Pertanto il docente, a seconda della fase del percorso formativo, deve poter svolgere sia il ruolo di formatore, facendo leva sulle proprie competenze e trasferendo il proprio know-how, sia di coach, affiancando gli allievi nella formazione pratica e sul campo, cercando di coglierne i soft skill, aiutandoli a potenziare le proprie attitudini, migliorare la propria autostima e soprattutto tirare fuori i talenti di ciascuno.

pubblicato anche in collaborazione con Massimo Fucci su:
https://newsimpresa.it/mindup/2021/05/la-formazione-come-abilitatore-del-business/

martedì 26 gennaio 2021

DESIGN THINKING APPLICATO AL MARKETING: UNA NUOVA FRONTIERA DA ESPLORARE

BUSINESS E STRATEGIA

di Maria Lanzetta

Lo scorso novembre ho avuto il privilegio di partecipare alla due giorni del World Marketing Summit 2020 – ovviamente versione digital -, un evento di risonanza mondiale istituito da Philp Kotler, una delle massime autorità del marketing moderno. Oltre naturalmente all’esclusivo intervento dello stesso Kotler, è stato possibile accedere a una vasta quantità di contenuti proposti dai più autorevoli esperti a livello internazionale in termini di marketing, economia e tecnologia.

In sintesi, Il Design Thinking è una nuova metodologia di progettazione, caratterizzata da un approccio logico-creativo incentrato sull’utente, che si concretizza in modelli di processo condotti da team multidisciplinari per la realizzazione di nuovi progetti, prodotti, servizi, sistemi e modelli di business altamente innovativi. Di fatto, si configura come un metodo volto alla realizzazione di soluzioni, attraverso visione e gestione creative, secondo un approccio di lavoro incentrato sulle persone.
o   Creatività: il Design Thinking è un approccio che fa leva sulla capacità delle persone coinvolte nell’essere creative ed è, infatti, caratterizzato da strumenti e metodiche che supportano la generazione delle idee. In termini di marketing si traduce nel dare libero spazio alla fantasia, alle emozioni e a un “libero sentire”.
o   Brainstorming: caratterizzato da fasi e dinamiche divergenti, in cui si generano innumerevoli nuove idee attraverso lunghi momenti di confronto e di proposte, non concentrandosi sulla fattibilità, dando spazio a quanti più pensieri possibili senza preconcetti e pregiudizi di sorta. In questa fase è assolutamente bandito qualsiasi atteggiamento “giudicante”.
o   User Contribution: Il Design Thinking nasce dalla volontà di guardare ai bisogni degli utenti e vuole essere un aiuto a risolverli. Infatti è fondamentale il ruolo che l’utente finale ricopre nel processo di innovazione. Qui la capacità di saper interpretare ii bisogni dell’utilizzatore e vivere l’“esperienza del cliente” diventa fondamentale.
o   Prototipizzazione: essa velocizza il processo di genesi e consente di comprendere in maniera rapida i punti di forza e debolezza delle nuove soluzioni da implementare. Questo principio è strettamente correlato a quello di user contribution: nel Design Thinking non ci si limita a definire le varie fasi per immaginare un’idea o una soluzione, ma si arriva alla concreta realizzazione di tale idea mediante la realizzazione di un prototipo che da una parte consente un allineamento fra tutte le parti coinvolte nel progetto e, dall’altra, permette una prima fase di sperimentazione e testing.
o   Brainstorming: caratterizzato da fasi e dinamiche divergenti, in cui si generano innumerevoli nuove idee attraverso lunghi momenti di confronto e di proposte, non concentrandosi sulla fattibilità, dando spazio a quanti più pensieri possibili senza preconcetti e pregiudizi di sorta. In questa fase è assolutamente bandito qualsiasi atteggiamento “giudicante”.
o   User Contribution: Il Design Thinking nasce dalla volontà di guardare ai bisogni degli utenti e vuole essere un aiuto a risolverli. Infatti è fondamentale il ruolo che l’utente finale ricopre nel processo di innovazione. Qui la capacità di saper interpretare ii bisogni dell’utilizzatore e vivere l’“esperienza del cliente” diventa fondamentale.
o   Prototipizzazione: essa velocizza il processo di genesi e consente di comprendere in maniera rapida i punti di forza e debolezza delle nuove soluzioni da implementare. Questo principio è strettamente correlato a quello di user contribution: nel Design Thinking non ci si limita a definire le varie fasi per immaginare un’idea o una soluzione, ma si arriva alla concreta realizzazione di tale idea mediante la realizzazione di un prototipo che da una parte consente un allineamento fra tutte le parti coinvolte nel progetto e, dall’altra, permette una prima fase di sperimentazione e testing.

Molteplici sono stati gli argomenti trattati che hanno particolarmente attratto la mia attenzione e oggi vorrei condividere qui alcuni spunti interessanti relativamente alla metodologia del Design Thinking, argomento trattato magistralmente da Mauro Porcini, Chief Design Officer di PepsiCo. Infatti, dal mio modesto punto di vista, questa potrebbe essere applicabile in modo del tutto innovativo ed efficace ai processi di marketing.

Quattro sono i pilastri che caratterizzano il Design thinking

Un nuovo paradigma, un nuovo posizionamento

Tale modus operandi fa emergere concetti fondamentali e princìpi imprescindibili per un marketing efficace e a beneficio di tutti gli stakeholdercreatività, integrazione, inclusione, approccio olistico, empatia, centralità dell’essere umano, cultura e sostenibilità. Queste sono tutte leve indispensabili per far sì che il marketing diventi l’ecosistema ideale, in cui la concezione e la creazione di un prodotto/servizio sia il risultato di un contributo multidisciplinare che integri fantasia, emozioni, competenze tecnologiche, capacità di relazionarsi con il consumatore  e saperne interpretare i bisogni,  eccellenza della soluzione proposta attraverso una grande attenzione alla qualità, capacità di costruire una rapporto di fidelizzazione che duri nel tempo attraverso collaborazione, confronto e supporto.
Il processo di Design thinking, dunque, facilita la realizzazione di un prodotto più sostenibile sotto ogni punto di vista: ecologico, estetico, sociale nel rispetto degli altri, intellettuale, funzionale, economico ed emotivo.
In questo modo, l’opinione diffusa che il marketing debba essere essenzialmente un mero strumento a supporto delle attività commerciali, potrà virare verso la riconoscibilità di un servizio a beneficio di tutte le parti coinvolte nell’intero processo: genesi, acquisizione, realizzazione e utilizzo di un prodotto-servizio a reale valore aggiunto. Un’ attività che richiede impegno, conoscenza e capacità di comunicazione di un certo livello.

Pubblicato anche su NewsImpresa - Pentaconsulting

lunedì 26 ottobre 2020

FEBBRE DA LEAD: DAL MARKETING IMPERSONALE AL MARKETING RELAZIONALE

BUSINESS E STRATEGIA

di Maria Lanzetta

Avete presente la febbre dell’oro? Ovvero quel fenomeno che si verificò alla fine del 1800 in modo particolare in California, quando tante persone – alcune più sprovvedute, altre meno – intrapresero l’ardua impresa di andare a cercare l’oro, con la speranza di dare una svolta definitiva alla propria vita? Alcuni, pochi, ci riuscirono e si arricchirono, la maggior parte no, tornandosene a casa con un pugno di mosche in mano.
Bene, questo fenomeno mi ricorda un po’ la smania che ha preso molti di noi, che operiamo in ambito marketing e commerciale, da un paio di decenni a questa parte, nella disperata e spasmodica ricerca e generazione dei fatidici lead, spinti dalla convinzione che siano questi a far crescere il business.
Per generare questi ‘benedetti’ lead si è passati dal marketing più tradizionale, noto come outbound – attraverso le telefonate a freddo del commerciale, il telemarketing, le Dem, la raccolta di nominativi durante fiere ed eventi vari – al marketing più moderno, ovvero inbound, mettendo in piedi tutta una serie di strategie digitali tali per cui i lead dovrebbero arrivare in maniera proattiva e non reattiva.
Intanto. il marketing outbound sembrava ormai superato, salvo il fatto che dopo l’indigestione digitale dovuta al lockdown da Covid-19, la gente ha una gran voglia di ritornare agli eventi, fiere, convegni e seminari in presenza; il telemarketing, se da una parte diventa ogni giorno sempre più molesto e insistente, dall’altra, paradossalmente, è sempre più difficile da attuare alla luce del Gdpr; le Dem devono combattere il grande nemico di nome “spam”, che ha lo stesso ruolo del centralinista che, quando chiami e cerchi di parlare con il tuo interlocutore, ti filtra in modo ostile!
Il marketing inbound invece, dopo alcuni anni di exploit, sembra stia vivendo in questo momento una fase di difficoltà e sta iniziando a mostrare qualche crepa: una certa insofferenza e sfiducia da parte degli acquirenti; una sovrabbondanza di contenuti (talora ripetitivi e di bassa qualità); un martellamento sfrenato e invadente delle pubblicità display; un uso – passatemi il termine – eccessivamente ‘democratico’ dei social su cui si parla troppo spesso a vanvera e senza competenza; i costi per le campagne advertising e per la produzione dei contenuti senza poi averne dei ritorni concreti; nonché, anche qui, le limitazioni imposte dal Gdpr.
È forse arrivato il momento di rivedere completamente approccio e strategia e ripensare totalmente il processo di vendita e di acquisto. A questo scopo la prima cosa da fare è non parlare più di “lead”, un termine obsoleto e – lasciatemi dire – alquanto infelice dal momento che trasforma una persona pensante fatta di desideri, emozioni e necessità in una sorta di modulo compilato più o meno distrattamente. Piuttosto parliamo di relazioni, partendo dal punto fermo che un processo di vendita e di acquisto consiste nello stabilire un rapporto win-win tra chi vende e chi compra: ovvero facciamo qualcosa insieme che soddisfi entrambe le parti.
Certamente rimangono valide alcune metodologie marketing sia inbound sia outbound, ma la base su cui costruire tale percorso è fatta di empatia, ascolto e competenza: serve, quindi, la capacità di cogliere le emozioni e i sentimenti di chi ci sta di fronte. E per fare questo bisogna saper ascoltare e acquisire quante più informazioni possibili per comprendere meglio l’interlocutore, competenza per poter valutare insieme le risposte e le soluzioni ai suoi bisogni e ai suoi desiderata.
In questo modo non si mette più il potenziale cliente con le spalle al muro, ma attraverso un dialogo e un confronto si costruisce insieme una soluzione ad hoc, specifica e personalizzata con la quale l’atto dell’acquisto è solo l’inizio di un rapporto che durerà nel tempo, basato sul rispetto, fiducia reciproca e fidelizzazione.
Allora non si parlerà più di lead, ma di persone, e piuttosto che affannarsi in una frenetica e indiscriminata raccolta di form compilati, sarà necessario impegnarsi a costruire relazioni stabili con serietà e trasparenza. Oltre a saper raccogliere e leggere i dati di mercato, sarà indispensabile avere la capacità di comprendere ogni singola persona nella sua unicità. È iniziata l’era del marketing relazionale.



lunedì 1 giugno 2020

L'INDIGESTIONE DIGITALE

BUSINESS E STRATEGIA


di Maria Lanzetta

Credo molto nell’utilità degli strumenti digitali e social – sono una grande utilizzatrice di LinkedIn, un po’ meno di Facebook, pochissimo di Instagram. Ho aperto la prima community social su LinkedIn nel lontano 2009 per una piccola società di servizi, ma oggi sono arrivata a una banalissima conclusione “c’è una misura in tutte le cose”. 
Nei miei 25 anni di esperienza nel Marketing B2B, sono passata da strumenti comunicazione, oggi decisamente superati, come per esempio il direct mailing con Posta Target – francobollo e ufficio postale -, per arrivare alle piattaforme di Marketing Automation e di Content Intelligence che ritengo fantastici. 
Tuttavia, durante questi due mesi di lockdown abbiamo assistito a un’erogazione di contenuti digitali indiscriminata e incontenibile, in una sorta di corsa compulsiva e incontrollata alla pubblicazione di qualsiasi cosa. 
Non parliamo poi del pieno di Webinar e video proposti sui temi più disparati!
E’ probabile che ci siamo fatti prendere troppo la mano, innescando un meccanismo perverso “chi più ne ha, più ne mette”. 
M in questi casi il rischio è quello di sacrificare pesantemente la qualità, con l’idea di dover esserci a tutti costi. 
Questi due mesi che ci stiamo lasciando alle spalle, con le ossa inevitabilmente rotte e un percorso davanti a noi tutto in salita, avrebbero potuto rappresentare per tutti il periodo “del silenzio e della riflessione”, magari pensando seriamente di rivedere completamente i nostri modelli di business, le nostre strategie e i nostri obiettivi, cercando di studiare un nuovo modo per far girare l’economia, produrre benessere, mettendo però al centro l’uomo, ciascuno di noi. 


Pubblicato anche su Parole di Management - Ed. ESTE

giovedì 12 marzo 2020

IL CORONAVIRUS OLTRE IL BUSINESS

SCENARIO

di Maria Lanzetta

Se pensiamo a tutte le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche di quest’ultimo millennio, sembrerebbe davvero che l’uomo sia in grado di dominare l’universo: dalle rivoluzioni nel campo medico, all’ esplorazione nello spazio, la robotica, l’IOT, l’elenco sarebbe davvero lungo. Poi un giorno arriva un microessere, battezzato COVID-19 e paralizza il pianeta, mette spietatamente l’uomo di fronte ai propri limiti, in un’epoca in cui tanti di noi sono presi da manie di onnipotenza. 

Business plan, obiettivi, gantt, grafici e proiezioni in questo nuovo scenario perdono completamente di valore, gridando in tutta la loro inconsistenza, che non tutto è nelle nostre mani, per quanto ci si consideri efficienti e performanti
Molti di noi, in questa frenetica corsa dietro al business, ai guadagni, ai numeri, hanno completamente perso il senso della misura, dell’etica e hanno totalmente abdicato alla capacità di guardare oltre, arroccati sulle proprie certezze, con la propria presunzione e arroganza. 
Poi è arrivato un virus, non contemplato nei nostri business plan, nei nostri forecast e nei nostri grafici e ci ha messo tutti con le spalle al muro. Tutti indistintamente, manager e subordinati, ricchi e poveri … fighi e sfigati
Senza scadere in una retorica scontata, senza ricorrere a scenari biblici apocalittici e alle profezie di una fine del mondo dei calendari Maya, una cosa è certa: la nostra vita, sia privata, sia professionale, deve necessariamente essere costruita su pilastri molto più solidi e resistenti a qualsiasi fattore esterno, quali etica, deontologia professionale, onestà intellettuale, rispetto, tolleranza, solidarietà, sui quali le nostre coscienze hanno spesso fatto sconti in questa frenetica corsa dietro al business, ai soldi e al potere. 
Sicuramente dopo tutto ciò, ci ritroveremo a doverci rimboccare le maniche per ricominciare a costruire; ma è auspicabile che ciascuno di noi, dopo essersi fatto un bel bagno di umiltà, affronti la propria vita in modo diverso, con un orizzonte più ampio, uno sguardo a 360 gradi, non accecato dalla miopia del proprio singolo interesse, delle proprie ottuse certezze, ma con maggiore attenzione e rispetto verso tutto ciò che ci circonda e tutte le persone che ci sono intorno. 
Non è buonismo, ma potrebbe essere una strategia vincente per vivere meglio.