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lunedì 15 gennaio 2024

LEADERSHIP GENTILE: UN NUOVO STILE DI MANAGEMENT

BUSINESS E STRATEGIA

di Maria Lanzetta


Negli ambienti aziendali la parola "leadership" è spesso associata a un approccio decisionale,  dominante, unidirezionale e, talora, impositivo. Tuttavia, negli ultimi anni, un concetto diverso sta guadagnando terreno: la leadership gentile. Questo stile di management si concentra sull'empatia e sull'inclusione, rivoluzionando l'idea tradizionale di governance e portando con sé un impatto significativo. Essa rappresenta un nuovo paradigma che pone l'accento sull'ascolto attivo, sulla collaborazione, sul sostegno e sul benessere di coloro che si è chiamati a guidare. In  contrapposizione all'immagine dell'autorità rigida, la leadership gentile si basa su una maggiore consapevolezza emotiva, che mette al centro la relazione e la fiducia tra manager e collaboratori, superando un modello tradizionale basato tipicamente su controllo e comando. Questo approccio rivoluzionario porta diversi benefici concreti, quali coinvolgimento, senso di responsabilità e partecipazione attraverso cui viene favorita l'apertura al dialogo, che poi si traduce in un maggiore engagement da parte di tutti gli stakeholder. La governance guidata dalla gentilezza contribuisce, di fatto, alla  creazione di un ambiente aperto e rispettoso, favorendo  creatività e proattività,  in cui ciascuno si sente più libero di esprimere idee e suggerimenti senza paura di giudizi e, allo stesso tempo, maggiormente responsabilizzato: tutto ciò consente lo sviluppo di rapporti  più solidi tra i leader e i propri team, e di lavorare in un clima più disteso, ma allo stesso tempo con focalizzazione e concentrazione, a vantaggio della produttività aziendale e del benessere collettivo. La leadership gentile all'interno della governance, dunque, non è un segnale di debolezza o una rinuncia al potere, ma è una scelta consapevole e strategica da parte del management per ottenere risultati sostenibili e duraturi, basati sulla qualità delle relazioni e sul senso di appartenenza.
Guardando in prospettiva, la governance aziendale continuerà a evolversi e dovrà adattarsi costantemente a nuovi contesti, mettendo sempre più l’individuo al centro delle proprie strategie. Ci si aspetta che le organizzazioni siano sempre più attente alle questioni ambientali, sociali e tecnologiche all’interno del proprio ecosistema, in cui  benessere delle persone, rispetto, legalità e trasparenza possano rappresentare le linee guida per una strategia di governance che garantisca la prosperità di un’impresa sul lungo termine. 

giovedì 15 dicembre 2022

L’ECOSISTEMA DELLA FORZA LAVORO COME UN’ORCHESTRA

BUSINESS E STRATEGIA

di MARIA LANZETTA in collaborazione con Massimo Fucci

Oggi più che mai le aziende hanno bisogno di un’organizzazione armonica e coordinata che tenga conto del contesto flessibile e multimodale in cui si opera, al di là dei perimetri fisici e infrastrutturali tipici dei contesti di lavoro tradizionali
Le statistiche parlano chiaro: ormai molti ecosistemi lavorativi sono costituiti da una forza lavoro estesa dentro e fuori l’azienda, da collaboratori esterni e terze parti, con una dislocazione distribuita sia in termini di luogo dove si svolgono le attività, sia di gestione dei tempi e delle modalità operative.  A fronte di ciò, i manager devono fare i conti con una maggiore complessità di gestione di questo nuovo e articolato contesto lavorativo. La grande sfida è riuscire a far funzionare tutto in modo armonico … come in un’orchestra! 

Quando si parla di ecosistema di forza lavoro, si intende oggi un’organizzazione costituita da una rete di collaboratori, interni ed esterni, che hanno come obiettivo comune, a beneficio di tutti, la creazione di valore a favore dell’organizzazione per la quale operano. Questo nuovo paradigma comporta un elevato livello di responsabilità e di committment da parte di ciascun stakeholder e implica una forte interdipendenza, complementarità e sincronizzazione tra le diverse tipologie di lavoratori. Va da sé che, affinché tutto ciò funzioni, il ruolo del manager assume, più che mai, una funzione nevralgica e strategica: è come avere un’orchestra in cui ciascun musicista sia in grado di suonare nel migliore dei modi il proprio strumento e che, contemporaneamente, vada a tempo e in armonia con gli altri musicisti. Il manager è il direttore d’orchestra in grado di garantire la migliore performance del gruppo nella sua interezza.

Su questo tema è stata condotta una ricerca e poi elaborato uno studio su iniziativa del MIT Sloan Management in collaborazione con Deloitte. Tale analisi, infatti, si focalizza proprio su come affrontare la sfida nella conduzione, o meglio, nell’orchestrazione dei nuovi ecosistemi della forza lavoro. Una questione ormai non più procrastinabile, a fronte dell’era post-pandemica che ha accelerato questo processo di trasformazione delle modalità di lavoro, tenendo conto non solo delle attuali circostanze, ma anche di un diverso atteggiamento e di una diversa forma mentis dei lavoratori e dei professionisti di oggi.

Un ecosistema integrato
Nel MIT Sloan Management Review si evidenzia come l’orchestrazione di un ecosistema di forza lavoro sia il risultato di uno sforzo collettivo che passa attraverso l’integrazione tra molte funzioni aziendali interne e consulenziali esterne. In particolare, è emerso come in quelle organizzazioni “legacy mature”, ovvero che hanno consolidato negli anni tutta una serie di pratiche e di policy, talora troppo rigide, sia necessario per il management doversi adattare a gestire e coordinare una forza lavoro variegata, composta da dipendenti, consulenti esterni e da figure quali temporary manager, advisor e free-lence su cui si ha contrattualmente meno controllo, ma dai quali sicuramente si può ricevere una maggiore ricchezza di contributi, frutto anche di una visione elaborata da una prospettiva diversa rispetto a quella aziendale “canonica”.
È ovvio che tutto ciò richiede un cambio di cultura e di mentalità che permetta alla dirigenza di applicare in egual modo principi di inclusività, equità e trasparenza a tutti coloro che fanno parte di un ecosistema lavorativo, a prescindere dalle modalità operative e dalla tipologia di collaborazione contrattualizzata. E’, altresì, fuori dubbio che questo tipo di evoluzione necessiti anche di una revisione delle leggi che regolano i rapporti di lavoro, in un’ottica di maggiore flessibilità ed elasticità, ma anche di maggior tutela verso i collaboratori esterni.
Ora, per applicare questo nuovo paradigma è indispensabile che le organizzazioni adottino una strategia che si costruisca su alcuni capisaldi fondamentali, quali:

  • Massimo coordinamento nella gestione interfunzionale dei collaboratori interni ed esterni, senza soluzione di continuità
  • Capacità di assegnare compiti e mansioni alle diverse figure interne ed esterne, sulla base della natura stessa del loro rapporto di lavoro con l’organizzazione
  • Supporto e incoraggiamento ai leader che hanno nella propria strategia l’acquisizione di competenze esterne
  • Management che sappia “fare squadra” in un contesto lavorativo multimodale
  • Totale allineamento dell’intera forza lavoro con la strategia e gli obiettivi aziendali.
Dunque, tutte elementi questi che devono necessariamente caratterizzare quei leader lungimiranti, che concepiscono la propria organizzazione non come una struttura rigida e chiusa, ma appunto come un ecosistema diversificato, adottando un approccio in totale discontinuità con un modello tradizionale che intende, invece, la forza lavoro rigorosamente in termini di dipendenti assunti (e possibilmente a tempo pieno).

C’è orchestra e orchestra!
Nel 2020 Reed Hastings co-fondatore di Netflix ha pubblicato insieme all’autrice Erin Meyer, il libro No Rules Rules (edizione Penguin Press) – titolo in italiano “L’unica regola è che non ci sono regole” -, in cui viene fatta un’utile distinzione tra la direzione di un’orchestra sinfonica, che si basa fondamentalmente su spartiti e su ruoli assegnati, e la creazione di una band rock o jazz, che spesso ricorre all’improvvisazione (seppure entro certi canoni di rispetto dei tempi musicali). Allo stesso modo, in un ecosistema lavorativo ci sono momenti in cui è richiesta una direzione più rigorosa simile a quella di un’orchestra sinfonica (per es. in situazioni di criticità e di difficoltà), ma ci sono anche molte occasioni in cui creatività e innovazione possono dare un valore aggiunto, esattamente come avviene in una jazz band che crea il “mood” dell’esibizione, anche in base al contesto, al pubblico e a circostanze specifiche. In entrambi i casi, tuttavia, l’orchestrazione e l’abilità di creare armonia e sintonia fra i diversi musicisti hanno un ruolo chiave, per garantire una performance di qualità che risponda alle aspettative e agli obiettivi prefissati.
Ma cosa hanno in comune le due modalità? La capacità delle persone (competenza e talento) e le regole fondamentali, conosciute e applicate da tutti, un messaggio che le aziende dovrebbero interiorizzare. Anche perché i progetti importanti debbono vedere la presenza di entusiasmo in grado di facilitare la collaborazione interdisciplinare tra dipartimenti e lavoratori. In un contesto in cui tutti possono esporre il proprio genio e la propria creatività. Il tutto orientato a un obiettivo comune.
Orchestrare un contesto di lavoro significa, quindi, riuscire ad applicare un approccio olistico nella gestione di tutti gli attori coinvolti in un ecosistema lavorativo, seguendo un filo conduttore (metodo – intelligenza emotiva – comunicazione) che colleghi, su una base comune, le diverse tipologie di lavoratori, interni, esterni e terze parti. In questo modo la rete di collaboratori si trasforma in un’orchestra in cui ciascuno darà il suo contributo e farà del suo meglio per il raggiungimento dello stesso obiettivo, in modo armonico, sinergico, senza interruzioni e “note stonate”.

articolo pubblicato a settembre 2022 su NewsImpresa

Fonte: MIT Sloan Management Review – 17 maggio 2022

martedì 6 settembre 2022

IL FUTURO DELLA LEADERSHIP È MULTIMODALE

BUSINESS E STRATEGIA

di Maria Lanzetta

Come è ormai noto l’era Covid ha segnato una svolta decisiva nei diversi contesti lavorativi, determinando il passaggio a modelli operativi ibridi, che richiedono l’acquisizione e lo sviluppo di nuove competenze da parte del management nella gestione dei team e delle diverse attività

E’ infatti assodato come la pandemia abbia accelerato un percorso di trasformazione - che era incominciato lentamente già nel periodo pre-COVID19 - nelle modalità di gestione e svolgimento delle attività lavorative all’interno di un organizzazione, sia a livello individuale sia di team, portando sempre più le aziende ad adottare un approccio di organizzazione “ibrido”, ovvero una equilibrata combinazione di lavoro a distanza e in presenza, basato su una cultura aziendale condivisa e innovativa. 

Questo nuovo modello, che tenderà a prendere sempre più piede nel futuro post-pandemico, richiederà una diversa concezione di leadership, la quale si costruirà su nuove competenze e nuove capacità che i futuri manager dovranno necessariamente acquisire e sviluppare. Infatti, la grande abilità dei nuovi leader aziendali sarà, da un lato, quella di fissare obiettivi, monitorare il work-in-progress, verificare i risultati in modo virtuale, utilizzando tutte le tecnologie digitali a disposizione; dall’altra parte, però, dovranno essere in grado di gestire in presenza relazioni e confronti “vis-à-vis”, sia a livello di singolo individuo, sia nel contesto di un gruppo, continuando a far leva su metodi e strumenti più tradizionali. Dunque, la grande sfida del management del terzo millennio consisterà nel adottare i due diversi approcci in modo armonico e in continuità l’uno con l’altro.

Affinché questa modalità ibrida funzioni e sia efficace, sarà fondamentale stabilire a monte quali attività possono essere svolte virtualmente, quindi a distanza, e quali necessitano invece di una presenza fisica in un luogo di lavoro condiviso. Nel primo caso si tratterà fondamentalmente di task che non richiedono particolare interazione, per esempio redazione di report, preparazione di documenti, analisi finanziarie, ovvero tutte quelle attività che un collaboratore può svolgere in autonomia, gestendosi da solo tempi, luoghi e modalità. A queste, poi, si altereranno momenti di confronto e condivisione, per i quali la compresenza agevolerà l’interazione, il dialogo, il confronto e l’integrazione all’interno del team. Esistono, infatti, tutta una serie di aspetti che per un manager possono essere gestiti in modo più efficace all’interno di uno spazio  e di un contesto “fisico”, in modo particolare quando entrano in gioco fattori legati alla sfera emotiva e caratteriale dei propri collaboratori, essenziali per creare il giusto spirito di squadra, per adottare un approccio di problem solving condiviso, per gestire eventuali conflitti all’interno del team e, soprattutto, per costruire una cultura aziendale collettiva e sviluppare un comune spirito di appartenenza.


Quando è ancora necessaria la presenza fisica?

Di fatto, attualmente la tecnologia ci permette di svolgere le nostre mansioni lavorative in modo più flessibile e autonomo, scegliendo luogo e orari senza essere necessariamente legati al concetto dell’ “andare in ufficio”. Tuttavia ancora oggi ci sono dei fattori legati alla nostra operatività e alle nostre perfomance che richiedono una presenza fisica all’interno del luogo di lavoro, questo appunto per garantirne una maggiore efficacia ed efficienza.

Il primo fattore riguarda la collaborazione, che non consiste semplicemente nell’allineamento e  coordinamento tra i diversi membri di un team, ma significa soprattutto stabilire empatia, comprensione e fiducia reciproche, costruire relazioni attraverso gestualità, sensazioni epidermiche, sguardi, strette di mano, azioni rituali, quali per esempio, prendere un caffè o fare una pausa pranzo insieme. Tutti elementi che hanno un ruolo fondamentale per creare un clima collaborativo. Spazi e tempo condivisi “in presenza” costituiscono, inoltre, un contesto aziendale favorevole e stimolante per l’innovazione, la quale tipicamente richiede brainstorming, condivisione di best practise e,  in generale, attività empiriche e pragmatiche da mettere a fattor comune all’interno di un gruppo di lavoro. Stesso discorso vale per agevolare, come si diceva prima, una completa integrazione culturale, la quale indubbiamente richiede periodi di interazione face-to-face, un reciproco studio delle diverse personalità dei singoli individui appartenenti allo stesso team, un’analisi da parte del management di attitudini, punti di forza e di debolezza dei propri collaboratori; in questo caso una chiara definizione di regole e procedure, in base a cui costruire un'identità condivisa, costituisce il punto di partenza. Tutto questo diventa fondamentale per stimolare, il più possibile, all’interno di un’organizzazione coinvolgimento e dedizione, derivanti  dal fatto di avere obiettivi comuni e di sentirsi parte di una collettività, dove ciascuno abbia l’opportunità di esprimere le proprie potenzialità e di crescere professionalmente.

I diversi ruoli dei leader del terzo millennio

In questo scenario appare evidente che le caratteristiche di leadership dei nuovi manager subiranno una profonda trasformazione, e questo innovativo modello di lavoro multimodale richiederà nuove competenze e capacità gestionali, per poter guidare efficacemente e con successo team e singole persone, in una modalità ibrida.

Nel MIT Sloan Management Review del 2021 sono state individuate quattro funzioni specifiche – i 4C Roles - che i nuovi manager dovranno imparare a svolgere, ovvero:

Conduttore. Un ruolo di leadership che si può svolgere in modalità virtuale; la sua funzione consiste fondamentalmente nel fare in modo che piani, decisioni, informazioni e risultati siano condivisi, per poter coordinare efficacemente e motivare i diversi membri del team. Il ruolo è simile a quello di un direttore d’orchestra che guida i diversi musicisti in modo tale che suonino bene individualmente e in armonia. In questo caso, i manager devono farsi carico della definizione degli obiettivi e della pianificazione, sono responsabili dei processi decisionali e del coordinamento delle diverse attività. Sarà loro compito, inoltre, monitorare il work-in-progress e fornire supporto all’occorrenza,  facilitando l’interazione e il coinvolgimento tra i membri del team, e aiutare a costruire fiducia reciproca. Per avere successo in questo ruolo, i leader devono trovare il giusto equilibrio tra la capacità di far sentire la propria presenza e quella di consentire ai propri collaboratori di lavorare autonomamente. Durante la pandemia è emerso quanto siano estenuanti le lunghe e infine videochiamate, pertanto dovranno avere la capacità di ottimizzare e rendere efficiente al massimo l’utilizzo delle piattaforme digitali.

Catalizzatore. Tale funzione è fondamentale per stimolare la creatività e incoraggiare l'innovazione, attraverso un’integrazione culturale tra i vari membri del team e generando un alto livello di  engagement da parte di ciascuno. A questo scopo, i manager devono fare in modo che i propri collaboratori abbiano fiducia nelle proprie capacità e raggiungano un adeguato equilibrio piscologico ed emotivo. Tutto ciò consente loro di facilitare  un dialogo e un confronto creativo, evitando scontri e incomprensioni quando si hanno idee diverse o nei momenti di difficoltà. Il catalizzatore, dunque, avrà un ruolo fondamentale  per far emergere i talenti di ciascuno, mettendoli a fattor comune durante l’intero processo.

Coach. Questo ruolo entra in gioco, in particolare, nel rapporto uno-a-uno, sia a distanza sia in presenza. In pratica, consiste nello stimolare i singoli a raggiungere il  massimo delle loro prestazioni, infondendo fiducia in se stessi e concentrandosi sia sul loro benessere personale sia sullo sviluppo professionale. Per svolgere tale funzione, è necessario che il manager sia dotato di un alto livello di intelligenza emotiva, di empatia e della capacità di  incoraggiare le persone a spingersi oltre i confini. Il coach dovrà, dunque, motivare la persona a gettare “il cuore oltre l’ostacolo”, facendo leva sulla sua ambizione e sulla sua propensione alla sfida.

Champion. Partendo dal presupposto che i ruoli di Conduttore, Catalizzatore e Coach implicano tutti un rapporto gerarchico tra manager e collaboratori, quello del Champion si posiziona a latere del team, con l’obiettivo di sostenerlo,  motivarlo e incoraggiarlo. Nella pratica, fa da supporto al gruppo di lavoro, procura strumenti e informazioni utili per lo svolgimento delle attività, fornisce feedback e risultati, contribuendo  a costruire un clima di fiducia reciproca fra i diversi stakeholder. Il ruolo di Champion, quindi, richiede capacità di negoziazione e allo stesso tempo abilità nel costruire alleanze, deve avere influenza senza autorità formale ed esercitare un certo ascendente sul team. Anche in questo caso si opera sia in presenza, sia a distanza.

La fiducia alla base del nuovo paradigma

Il filo conduttore, che collega queste quattro funzioni, è nella capacità dei manager di sviluppare nei propri collaboratori la fiducia in se stessi, i quali a loro volta dovranno imparare a potersi “fidarsi” l’uno dell’altro, attraverso la guida dei loro stessi manager; è fuori dubbio che la modalità di “smart working” renda questo più difficile da attuare.  Molte aziende, infatti, si sono dimostrate restie fino ad ora ad adottare il lavoro a distanza, perché non si fidavano completamente dei propri dipendenti, e questi ultimi non erano messi in condizioni di avere visibilità su quanto veniva svolto dai propri colleghi/pari. A questo si aggiungeva anche una certa riserva da parte della direzione circa la capacità dei manager stessi di saper monitorare a distanza le attività dei propri collaboratori. Poi è arrivata la pandemia che ha costretto le aziende a rivedere completamente il loro modello organizzativo. Questo nuovo paradigma richiede, infatti, un cambio radicale di mentalità, in base a cui la fiducia, a tutti i livelli, diventa un elemento essenziale per una leadership multimodale: ciò è possibile solo creando una nuova cultura aziendale, basata su onestà intellettuale, ambizione e allo stesso tempo umiltà, trasparenza, condivisione ed empatia, non perdendo mai di vista le peculiarità caratteriali e le diverse personalità di ciascuno.

Siamo a una svolta, dunque, il leader del futuro ha di fronte a sé una grande sfida, ma anche una grande opportunità nel costruire un nuovo modello di lavoro, più sostenibile ma molto più efficiente rispetto al passato.

Fonte: MIT Sloan Management Review 2021

pubblicato similmente anche su NewsImpresa


giovedì 14 luglio 2022

H2H MAEKETING, OVVERO IL MARKETING HUMAN –TO – HUMAN: UN NUOVO MODO DI RELAZIONARSI

BUSINESS E STRATEGIA

di Maria Lanzetta

Che il mercato, le aziende e il mondo dei consumatori sia fatto di essere umani sembrerebbe un concetto fin troppo ovvio, tuttavia le diverse strategie di marketing adottate in quest’ultimi decenni, quali marketing B2B e B2C, non sembra che lo abbiano sempre tenuto in considerazione. Mai come ora, alla luce di tutto quello che sta accadendo, è diventato indispensabile mettere l’uomo al centro, nella sua singolarità e peculiarità, al di la di ogni categorizzazione. Solo così si potrà costruire un modo per far girare l’economia a beneficio di tutti

Non si tratta di fare banale retorica o di “sciacquarsi” la bocca con del buonismo spicciolo, predicando l’attenzione e il rispetto per l’essere umano, ma si tratta di ripensare completamente un modo di relazionarsi all’interno dei propri mercati di riferimento, per far sì che il nostro business funzioni secondo una logica win-win, ovvero  solo se tutti gli attori di un contesto, vale a dire produttori, distributori, rivenditori, consulenti post vendita e consumatori sono equamente soddisfatti, l’economia può girare, crescere, autorigenerarsi in maniera virtuosa e portare quindi una aumento del benessere generale. Ma questo livello di soddisfazione - ormai speriamo di averlo capito – è raggiungibile a condizione che si costruiscano dei rapporti di lealtà, trasparenza ed empatia tra i vari stakeholder.

Per anni il marketing Business-to-Business e Business-to-Consumer ha fatto uso e abuso di strumenti quali mass communication, leads generation e telemarketing in modo indiscriminato, generando insofferenza e sfiducia da parte dei consumatori, al punto tale che la stessa parola “marketing” ha acquisito, nel tempo, un accezione negativa. Quante volte ciascuno di noi, parlando di aziende o di prodotti, ha usato l’espressione “Sì, ma è solo marketing!,” per esprimere un concetto di poca affidabilità da parte di fornitori e produttori?

Bene, è giunto il momento di ripensare completamente le modalità con cui rivolgersi al mercato e, da questi presupposti, sta prendendo piede un nuovo modello fondato sulla centralità dell’uomo, lo Human-to Human Marketing, ovvero un approccio relazionale basato su empatia, capacità di percepire effettivamente ciò di cui ha bisogno chi ci sta di fronte, non solo,  ma anche sull’abilità a generare emozioni positive. Dunque non più un modo di comunicare autoreferenziale, impersonale e allo stesso tempo poco autentico, finalizzato semplicemente alla promozione del proprio prodotto/servizio.

Il concetto di  Human to Human Marketing è stato sviluppato, per la prima volta, da Bryan Kramer, co-fondatore e CEO di PureMatter, un'agenzia di social media che, scrivendo in un suo libro “le aziende non hanno emozioni. I prodotti non hanno emozioni. Gli umani ce le hanno; vogliono provare qualcosa”, ha voluto far capire che i modelli di marketing B2B e B2C erano troppo incentrati sui prodotti e poco sull’essere umano con i propri sentimenti e la propria emotività. Ha evidenziato come fosse importante parlare non genericamente di target ma di buyer personas, ovvero di individui predisposti ad acquistare per soddisfare un proprio bisogno e per sentirsi appagati. 

Questo comporta evidentemente un totale cambio di paradigma, una ristrutturazione di pensiero, partendo dal presupposto che alle persone non interessa conoscere ogni singola caratteristica di un prodotto, ma vogliono invece sapere come questo prodotto può soddisfarle ed essere sicure di potersi fidare di coloro che glielo propongono, se hanno dei valori e un’etica;  solo dopo aver stabilito questa sorta di empatia e di stima reciproca, ha senso andare nel dettaglio del prodotto stesso.  Un approccio di marketing, dunque, che  presta particolare attenzione a ogni singolo individuo con le sue specificità, in modo tale che la relazione che si va a stabilire abbia un volto, un proprietario e una voce che sappia trasmettere e percepire l’essenza del marchio  e di chi lo rappresenta. Una modalità che va ben oltre anche la stessa metodologia di ABM (Account Based Marketing), proprio perché non si deve pensare più seconda la logica di account ma appunto di persone.

In questo modello, i rapporti tra aziende e clienti si sviluppano sulla base di una relazione sul lungo termine, attraverso cui tra le due parti si viene a stabilire un vero e proprio patto di solidarietà: da una parte chi propone un prodotto/servizio farà in modo di non tradire la fiducia del cliente, dall’altra quest’ultimo andrà ad “affezionarsi” al proprio fornitore e tenderà a rimanere fidelizzato ad esso. In questa maniera, inoltre, il cliente stesso diventerà un canale di promozione del suo fornitore, manifestando con altri il proprio livello di soddisfazione e di gradimento, creando così un meccanismo virtuoso a vantaggio di tutti: pensiamo quanto spesso ciascuno di noi ricorre alle recensioni prima di acquistare qualsiasi cosa!

Il ruolo della tecnologia nell’ H2H Marketing

Se, però, il marketing H2H mette in discussione quello tradizionale dello scorso millennio, è anche vero che invita a un uso corretto della digitalizzazione, assolutamente imprescindibile oggi, ma che va adotta cum granus salis.

Pensare  infatti che i robot avrebbero dominato il futuro, che la popolazione si sarebbe mescolata alle macchine e che gli strumenti avrebbero sostituito le persone è un grande errore e rischia di farci prendere un grosso abbaglio. Le diverse e avvincenti piattaforme di marketing automation, di content intelligence, i chatbot etc. sono strumenti di enorme ausilio per permettere modalità innovative di fare marketing, ma non dimentichiamoci che sono a servizio delle persone e non in loro sostituzione. L’adozione di tali tecnologie serve, dunque, a facilitare i rapporti e le interazioni tra esseri umani – fornitori e acquirenti e tra gli stessi consumatori -, ad avvicinarli, ad accorciare le distanze, a rendere più immediate le relazione, gli scambi e i confronti da entrambe le parti. Gli androidi, quindi, danno un grande valore aggiunto nella misura in cui consentono agli esseri umani di accostarsi fra loro e di comprendersi meglio. In quest’ottica, le piattaforme social sono estremamente utili, dal momento che mettono a disposizione una piazza digitale e virtuale di incontro e di network tra singoli individui.


Comunicazione trasparente, coinvolgente e rispettosa

L’unico modo per mostrare il lato umano della propria azienda è usare trasparenza e onestà intellettuale, evitando ogni forma di ambiguità, far capire, in modo inequivocabile, ai potenziali clienti i valori su cui si fonda l’azienda, i punti di forza così come quelli di debolezza, questo proprio per mostrare quanto di umano c’è nell’azienda stessa. A questo scopo è necessaria una comunicazione aperta, naturale e trasparente.

In una strategia di marketing relazionale, basata sul modello H2H, è fondamentale adottare un tono di voce più umano, vivo, che non vuol dire necessariamente utilizzare modalità troppo amichevoli che si discostano dall’essenza dell’azienda, che non sono adeguati al settore di riferimento o che possono risultare inopportune rispetto all’interlocutore. Bisogna ripensare alla comunicazione utilizzando toni più caldi, più vicini a chi ci rivolgiamo, evitando tecnicismi quando non sono necessari o slogan impersonali e inflazionati. E’ fondamentale, dunque, costruire un messaggio ad hoc e personalizzato, in base a chi ci ascolta, ai suoi interessi e ai suoi obiettivi: è su questi elementi che bisogna far leva per strutturare una comunicazione comprensibile ed efficace. 

Per fare questo il cliente va osservato, ascoltato, capito e definito come una persona reale con un’età, un’occupazione, degli hobby, delle passioni e un suo vissuto.

Solo dopo avere tracciato il profilo del potenziale cliente in quanto essere umano, è possibile trovare un tono di voce che trasmetta l’emozione che loro desiderano provare, in modo tale da abbattere eventuali barriere, farli avvicinare, comunicando, a quel punto,  il proprio sentire e non solo mostrandogli le specifiche di un prodotto. Bisogna far capire, dunque, che la  azienda è formata da persone in carne e ossa con emozioni, qualità e difetti.

Questo nuovo metodo di fare marketing è meno invasivo e molto più stimolante per i clienti, perché vedono i valori dell’azienda uguali o simili ai propri e riescono, in questo modo, a cogliere lo sforzo da parte del fornitore di mostrarsi trasparente e di includerli nel suo ecosistema.

Tutto questo viene reso possibile, applicando i princìpi fondamentali della Comunicazione Human–Centric, ovvero: ascolto attento, attraverso cui acquisire quante più informazioni possibili per comprendere meglio l’interlocutore; competenza, per poter offrire le risposte più adeguate ai bisogni del cliente e ai suoi “desiderata” e, quindi, empatia, ovvero la capacità di sapersi “mettere nei panni di chi ci sta di fronte”.

già pubblicato su NewsImpresa


lunedì 20 giugno 2022

IL MARKETING REFERENZIALE A SUPPORTO DEL BRAND

BUSINESS E STRATEGIA


di Maria Lanzetta

Lasciamo che siano gli altri a parlare bene di noi! E’ questo il principio che sta alla base del marketing referenziale. Ma per fare questo è importante garantire affidabilità, serietà e qualità nei servizi /prodotti che proponiamo. Un cliente contento è il migliore e più efficace strumento di marketing e comunicazione che possa conferire autorevolezza al nostro brand

“Chi si loda si imbroda” è un noto proverbio che sintetizza il concetto che essere troppo autoreferenziali può diventare un’arma a doppio taglio, perché genera diffidenza e spesso insofferenza da parte di chi ascolta. La bontà di ciò che viene promosso non si misura con la quantità di parole spese a favore di sé stessi, ma con i fatti. Secondo  le diverse analisi di mercato, è ormai un’abitudine consolidata, da parte di un consumatore, quella di leggere recensioni e commenti prima di fare un acquisto: questo ovviamente per farsi un’idea sul grado di soddisfazione di chi quel prodotto o servizio lo ha già acquistato e sperimentato. Partendo da questo dato di fatto, va da sé che l’opinione dei clienti abbia un ruolo determinante nella strategia marketing e commerciale di un’azienda. Questo vale ancora di più oggi con la diffusione dei social e in generale della comunicazione digitale: il famoso “passaparola” viaggia a una velocità decisamente maggiore rispetto al passato, e questo sia nel bene sia nel male; così come un cliente contento può rappresentare un asso nella manica per promuovere un prodotto/servizio, allo stesso modo quello insoddisfatto può trasformarsi davvero in una mina vagante per la propria immagine. Di fatto, il punto di partenza è avere la certezza di essere seri e affidabili e di proporre soluzioni qualitativamente apprezzabili. Detto questo, lasciar parlare i clienti al posto nostro, significa fare in modo che il nostro prodotto/servizio “si venda da solo”.

Cosa è il Marketing referenziale

Il marketing referenziale  o referral marketing è una tecnica di comunicazione attraverso terzi, possibilmente “super partes”, i quali esprimono un opinione positiva in relazione a una determinata soluzione; questi possono essere dei clienti soddisfatti o degli opinion leader, ovvero persone autorevoli il cui punto di vista viene considerato oggettivo e scevro da ogni condizionamento. Questa tecnica si basa, fondamentalmente, su un rapporto di fiducia reciproca costruita nel tempo tra il fornitore e il consumatore, il quale parlando “bene” di un determinato prodotto, sicuramente rende un servizio utile a chi gliel’ha fornito ma, dal canto suo, in cambio si aspetta da quest’ultimo un’attenzione particolare e una garanzia di qualità nel medio e lungo periodo. Insomma, diciamo che si innesca un circolo virtuoso tale per cui, più il cliente parla bene di noi, più noi ci sentiamo in dovere di non deludere le sue aspettative. E questo a vantaggio di tutti, compresi i potenziali nuovi acquirenti che si sentono, in questo modo, rassicurati e mireranno a stabilire una relazione simile con il possibile futuro fornitore. Le referenze sono, dunque, uno strumento di acquisizione clienti estremamente potente che richiede, però, tempo e continuità per strutturare solidi rapporti di fiducia e fidelizzazione.

Pertanto, con il referral marketing si passa da un approccio di vendita e di comunicazione “prodotto centrica” a un modello di tipo “esperienziale” e “relazionale”. In quest’ottica l’esperienza che vive un cliente nella relazione con un brand assume una grande importanza, perché molto spesso è proprio questa a influire maggiormente nella scelta di acquisto (o di riacquisto). Non a caso nell’ambito dei prodotti di consumo la modalità “soddisfatti o rimborsati” è sempre più diffusa. 

Il valore della community

Ora, se rimaniamo nell’ambito dei prodotti di consumo, la tecnica del referral marketing sicuramente ha un’applicazione più immediata ed emotiva: tipicamente oggi, chiunque di noi debba comprare un qualsiasi prodotto di consumo o un servizio, la prima cosa che fa è andare a vedere le recensioni e le quantità di “stelle” attribuite, quindi fa una media dei commenti positivi e negativi e, sulla base di questa, procede o meno all’acquisto.

Discorso diverso è quando invece ci muoviamo nel mondo B2B, in cui l’acquisto di un prodotto o servizio è soggetto a un processo decisionale più lungo e più ponderato, soprattutto ha bisogno di avere dei dati concreti che avvalorino la qualità della soluzione. In questo caso, è fondamentale costruire una rete di comunicazione diretta tra i clienti i quali, attraverso le proprie best practice e la propria esperienza, possano confermare il valore aggiunto e i benefici ottenuti dall’adozione di quel prodotto o servizio. E da qui, l’importanza per un fornitore di costruire una community, nella quale i diversi membri possano confrontarsi, condividere esperienze, scambiarsi suggerimenti, traendone reciproco beneficio. I clienti sentono sempre più il bisogno di condividere informazioni, aumentare le proprie conoscenze e instaurare relazioni di fiducia con i fornitori ma anche con altri utilizzatori. Ed è in questo contesto che il concetto di ‘trust’ trova una collocazione anche nei modelli B2B, concretizzandosi sia nella fiducia tra le persone che lavorano insieme all‘interno o all‘esterno di una organizzazione, sia nella fiducia tra un‘azienda, i suoi partner e i suoi clienti.

Come costruire una strategia di referral marketing

La logica che sta alla base del successo del referral marketing è che un’azienda sia assolutamente credibile e soddisfi i clienti sotto diversi punti di vista, quindi in termini di qualità, affidabilità, disponibilità e supporto. E’ necessario, pertanto, cercare di ridurre al minimo ogni criticità nell’esperienza di relazione con il cliente e lavorare su una comunicazione coerente, utilizzando tutti i canali disponibili quali sito aziendale, social network,  chatbot, messanger, email etc. E’ fondamentale, inoltre, mettere a disposizione dell’audiance case applicativi, storie di successo, feedback, commenti e recensioni di clienti e, soprattutto, bisogna fare in modo che questi ultimi  siano disponibili a spendere la loro immagine a favore dell’azienda fornitrice. A tale scopo, ovviamente, è necessario che i clienti abbiano avuto ottime esperienze con essa e che siano motivati a referenziarla, perché questo comunque contribuisce a rafforzare l’impegno e il commitment dell’azienda fornitrice nei loro confronti.

Attenzione però, il marketing referenziale non consiste in una serie di azioni “one - shot”, ma in un processo continuativo che si realizza attraverso diverse tipologie di strumenti, da quelli social – LinkedIn, in questo senso, è estremamente efficace in ambito B2B, proponendosi come luogo di incontro e di scambio virtuale -, a iniziative di tipo relazionale, compresi anche momenti conviviali, utili a rafforzare la rete di conosce, nel quale il fattore umano svolge un ruolo fondamentale. Se c’è una cosa che l’era pandemica ci ha insegnato è che l’uomo, al di là di tutte le innovazioni digitali, ha bisogno di fisicità, di guardarsi negli occhi, stringersi la mano, bere un caffè insieme.

Alla luce di queste considerazioni, appare evidente come l’utilizzo delle referenze debba rappresentare una componente estremamente importante all’interno di una strategia di marketing olistica e globale, nella quale il passaparola rappresenti all’interno di un’organizzazione un vero e proprio asset imprescindibile, e non semplicemente un “escamotage” o un espediente al quale ricorrere, qualora non si riesca a essere abbastanza convincenti.

l'articolo è stato pubblicato su NewsImpresa di MindUp Pentaconsulting

mercoledì 25 maggio 2022

LA METODOLOGIA DI VALUTAZIONE 3P

BUSINESS E STRATEGIA


di Maria Lanzetta

Che il capitale umano rappresenti il cuore pulsante di un’organizzazione è un concetto che dovrebbe essere, ormai, ben acquisito da parte di chiunque gestisca delle persone. Alla luce di questo, diventa fondamentale l’adozione di un sistema di valutazione preciso e oggettivo, che tenga conto del profilo professionale più adeguato a un collaboratore, dei risultati che questo produce e, infine, delle potenzialità della risorsa e delle sue possibilità di crescita in prospettiva

Le aziende sono fatte di persone che, con le loro peculiarità e potenzialità, costituiscono il DNA di un contesto lavorativo e ne determinano i tratti distintivi. Per questa ragione, in un’organizzazione le risorse umane rappresentano il bene più prezioso da coltivare, far germogliare, crescere, correggere, curare e potenziare. A questo scopo il management deve, necessariamente, dotarsi di tutti gli strumenti e le competenze che permettano di valorizzare al massimo questa preziosa risorsa: il capitale umano.
Empatia, motivazione e feedback sono degli aspetti indispensabili nella gestione del personale, perché permettono di stabilire un rapporto leale e trasparente tra un collaboratore e il suo manager, in cui il primo assumerà il proprio impegno in relazione agli obiettivi suoi e quelli aziendali, mentre il secondo avrà il compito di guidarlo, verificarne il work-in-progress, intervenire su eventuali azioni correttive, fornire un feedback periodico e poi valutare la persona nella sua completezza, tenendo in considerazioni una serie di parametri.

La teoria delle 3P
Si è spesso sentito parlare del sistema di valutazione delle 3P, il quale utilizza  tre fattori fondamentali nel tracciare il profilo di un collaboratore, ovvero posizione, prestazione e potenziale. Una metodologia, testata e consolidata negli anni, che ha l’obiettivo di valorizzare e migliorare la qualità del lavoro delle persone e lo stesso clima aziendale. Le tre “P” vengono analizzate e valutate sulla base del ruolo ricoperto e delle relative mansioni, dei risultati raggiunti e delle modalità con cui siano stati condivisi e perseguiti gli obiettivi assegnati, per arrivare fino all’individuazione di eventuali aree di debolezza o, al contrario, di potenzialità su cui investire per far crescere la risorsa, generando un più alto livello di motivazione di quest’ultima e maggiori benefici per l’azienda. Questo metodo di valutazione è, ancora oggi,  una dei più diffusi in ambito HR e rappresenta un approccio estremamente efficace, per focalizzare l’attenzione su strumenti strategici che favoriscano l’interazione tra l’organizzazione aziendale e le persone.
E’ fuori dubbio che una corretta, lucida ed equilibrata valutazione delle proprie persone rappresenti per un’impresa uno strumento estremamente efficace, dal momento che,  oltre a fornire le informazioni necessarie alla pianificazione e alla successiva interpretazione dei risultati, permette di individuare e comprendere al meglio quali siano tutti i mezzi e le risorse a disposizione, al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Dunque, partiamo dalla valutazione della posizione: ogni azienda, tendenzialmente, si identifica in un organigramma, all’interno del quale vengono individuate delle funzioni con una job description che sintetizza il ruolo che quella posizione rappresenta. I manager e i responsabili delle risorse umane dovranno identificare e tracciare quali siano le caratteristiche da possedere per svolgere quella determinata funzione. Sulla base di queste coordinate, si procederà a individuare il candidato che meglio risponda a tale profilo, probabilmente si cercherà prima all’interno dell’azienda e, se non disponibile, ci si orienterà verso una selezione esterna. E’ fondamentale che, nel decidere se una persona sia adatta a quel ruolo, si tengano in considerazione sia gli hard skills, ovvero percorso e grado di istruzione, esperienze pregresse, competenze, abilità e conoscenze, sia soft skills quali capacità di comunicazione, leadership, etica del lavoro, inclinazione a lavorare in team, capacità di adattamento, etc. Queste ultime, vedremo, hanno un ruolo fondamentale poi nell’individuazione del potenziale.
Una volta individuato il profilo più adatto per quella posizione e definiti obiettivi, aspettative e risultati attesi, si passerà, in una fase successiva, alla valutazione delle prestazioni. A tale riguardo, è importante che il manager o il supervisore effettui un monitoraggio costante delle attività in corso di esecuzione, pianifichi dei confronti periodici, fornisca dei feedback chiari e inequivocabili e suggerisca, se serve, delle azioni correttive o modifiche in corso d’opera. Inoltre, la valutazione sulle performance deve tener conto del raggiungimento degli obiettivi sia i termini quantitativi sia qualitativi, delle modalità operative, dell’atteggiamento e delle inclinazioni del collaboratore – con pregi e difetti -, tutti elementi utili per delinearne le potenzialità future.
E arriviamo così alla terza “P”, ovvero il potenziale, la valutazione del quale può rappresentare per un’organizzazione lungimirante, un asset davvero strategico. Essa, infatti consente, un’analisi delle potenzialità di un collaboratore emerse e non ancora completamente espresse, ma su cui l’azienda può ritenere opportuno e conveniente investire. Si tratta, quindi, di  una valutazione rivolta al futuro, in base alla quale viene ipotizzato un piano di crescita e di sviluppo professionale all’interno dell’organizzazione, cercando di prevedere, in prospettiva, il contributo che una risorsa potrebbe fornire. Questo approccio, inoltre, consente al collaboratore di vedere davanti a sé un percorso di carriera che lo motivi e lo fidelizzi all’azienda, abbassando il turn over che, quando è troppo alto, può rappresentare per l’impresa un grave danno sia in termini economici, sia di immagine.

Le 3P in era Covid e post Covid
Ora, la domanda che in questi ultimi due anni, molti HR Manager si sono posti è se abbia ancora senso applicare una metodologia basata sulle tre “P” in epoca pandemica e post pandemica, vale a dire in uno contesto lavorativo nel quale ruoli, mansioni, tempi, orari sono cambiati e si sono mescolati con un insieme di attività che riguardano anche la sfera privata del dipendente. La risposta, dal nostro punto di vista, è  assolutamente sì, perché ancor più in una situazione di lavoro flessibile, in ambienti diversificati, - dal canonico ufficio, alla casa di residenza, alla casa di villeggiatura, a spazi di co-working condivisi, quali parchi, internet caffè, etc. -, è fondamentale fare leva sul livello di engagement, sul senso di responsabilità e sulla capacità di autonomia di un collaboratore. Quest’ultimo, pertanto, dovrà inevitabilmente concentrarsi su un lavoro per obiettivi maggiormente focalizzato che, non essendo applicata una modalità di controllo tradizionale, verrà ancor più valutato in base alla posizione che il lavoratore ricopre, ai risultati quantitativi e qualitativi che ha portato e alle potenzialità progressivamente emerse.

Articolo pubblicato su NewsImpresa


venerdì 4 marzo 2022

IL CROWDLENDING, UN NUOVO E AGILE STRUMENTO DI FINANZIAMENTO

BUSINESS E STRATEGIA

di Maria Lanzetta

Icrowdlending  termine composto dalle parole inglesi crowd (folla) e lending (prestito) - è una forma di finanziamento erogato da una platea, per lo più privati,  finalizzato alla realizzazione di un progetto, il cui compenso è rappresentato dagli interessi che l’azienda, promotrice del progetto, è disposta a concedere ai prestatori una volta che esso sia stato concluso. E’, dunque, un’innovativa forma di finanziamento che consente a investitori privati di prestare denaro alle imprese, senza ricorrere all’intermediazione dei canali bancari tradizionali.

La creazione del crowdlending risale agli anni Novanta, tuttavia, non ha raggiunto la popolarità finché non è esplosa la pratica simile del crowdfunding che,  nell’ambito di iniziative no-profit, consiste in un sistema democratico di raccolta fondi su base volontaria, mentre con l’Equity crowdfunding, i finanziatori ottengono delle  quote di partecipazioni dell'impresa o del progetto. Tutto ciò avviene, in ogni caso, attraverso piattaforme digitali.

In realtà, già nel lontano 1987 a Lubecca, una cittadina tedesca di 200mila abitanti sulle sponde del mar Baltico, veniva realizzato  un progetto – fra i primi in Europa -, di riqualificazione urbana finanziato in crowdlending: una modalità innovativa, allora ancora poco diffusa, di raccolta fondi sotto forma di prestito, che combina alcune caratteristiche della sharing economy con il modello tradizionale di prestito a un tasso di interesse. A differenza del crowdfunding, in cui il finanziatore fa in realtà una donazione e ottiene in cambio un ritorno per lo più immateriale, il crowdlending funziona come un prestito alla vecchia maniera: vale a dire che chi investe denaro, lo fa per un ritorno economico, stabilito a priori in base a un tasso di interesse e regolato da tempistiche e modalità ben precise.
In Italia, il crowlending ha preso piede soltanto in questi ultimi anni, in particolare nel mondo immobiliare, ma di recente ha incominciato ad estendersi anche in diversi settori sia in ambito B2B sia B2C, rivelandosi un agile, rapido ed efficace sistema di finanziamento alternativo, in  particolare per le PMI, sia che si tratti di start-up, sia di aziende medio-piccole con una storia alle spalle e una presenza consolidata nel proprio mercato di riferimento. Infatti, se nella logica capitalistica, i grandi gruppi industriali trovano le porte aperte nei più disparati istituti bancari, le piccole e medie imprese, che in Italia rappresentano la maggior parte del tessuto industriale, si ritrovano spesso a subire tutti i limiti e le restrizioni determinate dalle regole della Borsa, qualora necessitino di accedere a prestiti o mutui.

Come funziona il crowdlending?
Nel crowdlending, noto anche come social lending, esistono delle piattaforme digitali che fungono da intermediari tra le aziende in cerca di finanziamenti e i soggetti che intendono investire in un progetto, pertanto l’incontro tra coloro che hanno bisogno di capitali e gli investitori avviene su tali piattaforme che, ormai anche in Italia, sono davvero tante e di differenti tipologie.
Rispetto al canale bancario tradizionale esse presentano un significativo vantaggio legato alle tempistiche. Per le aziende che necessitano di un prestito, infatti, i tempi sono decisamente più brevi, per quanto però per l’approvazione del progetto siano necessari determinati requisiti. Infatti, in linea generale, i siti di crowdlending accettano solo aziende con un buon merito creditizio, che siano quindi in grado di restituire il capitale ricevuto in prestito, che non abbiamo debiti, insolvenze e che non siano totalmente prive di dipendenti. Un aspetto importante, inoltre, che costituisce un elemento differenziatore rispetto alle banche che si focalizzano solo sull’assetto finanziario ed economico dell’azienda, è che le piattaforme di crowdlending valutano il progetto per cui si richiede un finanziamento, le finalità, le potenzialità, le possibilità di successo e quindi il valore aggiunto che il progetto stesso può generare. Una volta che il progetto è approvato dalla piattaforma e viene pubblicato, ai potenziali investitori viene anche fornito un rating specifico su ciascuna azienda, il quale indica la capacità dell’azienda stessa di restituire il prestito. Ovviamente più è basso il rating, maggiori saranno rischio e rendimento e quindi, la scelta del progetto su cui investire in crowdlending, dipenderà anche dalla propensione al rischio di ciascun investitore.

Quali sono i vantaggi del Crowdlending?
I vantaggi del crowdlending sono davvero tanti, sia dal punto di vista del richiedente, sia dal punto di vista degli investitori: ci guadagna, infatti, il debitore che può reperire le stesse risorse a un costo anche dimezzato rispetto al mercato tradizionale; ci guadagna il creditore, che ottiene un rendimento più alto dei normali investimenti.
Pertanto da una parte l’azienda che necessita fondi, rispetto ai sistemi di finanziamento tradizionali, si evita l’intermediazione della banca, con i relativi costi; ha modo di abbattere gli interessi sul prestito; sarà sottoposta a un iter di richiesta e approvazione molto più veloce e snello, senza perdersi in lungaggini burocratiche e infinite procedure per richieste di garanzie. I tempi di erogazione del prestito diventano, quindi, decisamente più rapidi, sempre a patto che l’azienda presenti tutti i requisiti di affidabilità e solidità creditizia necessari a ricevere il finanziamento.
Dall’altro canto anche per i finanziatori, il crowdlending offre numerose opportunità, quali la possibilità di diversificare facilmente il proprio portafoglio d’investimento, scegliendo più progetti differenti; ottenere rendimenti interessanti che arrivano fino al 14%; possono investire anche piccole somme, a partire da 20 euro, quindi minimizzando il rischio; pagare costi di gestione decisamente bassi, se comparati a quelli applicati dalle banche.
Attraverso questo sistema, inoltre, le aziende che presentano progetti di raccolta di capitali traggono molti vantaggi perché guadagnano in popolarità, visibilità del proprio brand e, in questo modo, hanno modo di mettere in atto una strategia di co-marketing che permette di arricchire la propria rete di conosce, attraverso cui instaurare nuove sinergie e generare nuove opportunità di business.

Quali sono i rischi?
Quando si parla di investimenti ovviamente non esiste il rischio zero, l’importante è minimizzarlo, muovendosi e agendo cum grano salis, come suggerisce Giuseppe Scapola. Allora come fare a mitigarlo?
Prima di tutto impegnando solo una porzione del proprio capitale nel crowdlending,  e poi diversificando gli investimenti su più progetti differenti, senza mai fossilizzarsi solo su uno e su un’unica tipologia. Fondamentale, poi, è analizzare con cura tutte le informazioni che la piattaforme ha reso disponibile in merito ai vari progetti, perché solo così è possibile valutare se vale la pena o meno prestare denaro proprio a quel progetto. Per portare a termine questa analisi, è importante studiare, inoltre, con attenzione il business plan, obiettivi, finalità, risorse che si intende impiegare, e osservare il rating dei progetti che la stessa piattaforma fornisce.
Il Crowlending rappresenta, dunque, una modalità più “smart” ma soprattutto più innovativa per far girare l’economia, anche e soprattutto in un periodo complicato come quello che stiamo vivendo, dal momento che l’instabilità causata dalla pandemia, insieme al congelamento dei finanziamenti da parte degli enti bancari tradizionali, da una parte ha messo le aziende in una situazione di impasse, e dall’altra ha abbassato la fiducia degli utenti negli istituti bancari stessi. Non è un caso che questa modalità di finanziamento e di investimento abbia preso piede in modo particolare tra i Millennial, ovvero una generazione, rappresentata dai nati a fine millennio - i così detti “nativi digitali” -, in grado di guardare oltre, con una capacità di adattamento maggiore nei confronti del cambiamento e dell’instabilità, e di vivere lo status quo in modo più pragmatico, con una maggiore leggerezza che non vuol dire superficialità!

pubblicato integralmente su Rivista di Meccanica Oggi


lunedì 13 dicembre 2021

PROPRIETA’ INTELLETTUALE DEL LAVORATORE DIPENDENTE: UN FURTO LEGGITTIMATO!

SCENARIO

di Maria Lanzetta

Sebbene non sia sempre semplice dimostrare l'appropriazione indebita della proprietà intellettuale" come atto illecito, rimane però comunque un'azione moralmente ed eticamente scorretta, anche quando non ci sono gli "estremi legali" per definirla come tale.
In realtà, ahimè, è molto più semplice di quanto si pensi appropriarsi dei talenti altrui e poi attribuirseli a sé stessi.

E’ inoltre immorale e ingiusto che, mentre il riconoscimento all’autore di un determinato progetto avviene - e comunque non sempre accade - una tantum, l’azienda invece sia legittimata ad appropriarsene “a tempo indeterminato”.
Questo è quello che spesso accade nel mondo delle aziende, ma purtroppo in questi casi NON esiste una legislazione che tuteli la proprietà intellettuale del dipendente o ex-dipendente.
La giurisprudenza sostiene infatti che in qualità di rapporto di dipendenza del lavoratore verso l’azienda, qualsiasi attività nuova frutto dell' ”inventiva” del dipendente diventa proprietà dell’azienda stessa, salvo riconoscerne l’autore. Di fatto questo non succede quasi mai, per cui la creatività e il valore aggiunto del singolo viene occultato da una sorta di anonimato, mentre l’azienda continua a ricavarne profitto.
Ritengo che il diritto di autore o copyright su progetti innovativi di lavoratori all’interno di un’azienda – attenzione, non si sta parlando dello svolgimento di una normale attività lavorativa che rientri nelle mansioni del dipendente a qualsiasi livello -, debba essere maggiormente tutelato e salvaguardato.
Infatti le aziende assumono e licenziano, i collaboratori vengono e vanno, si dimettono, scelgo di andare in un’altra azienda, cambiano “maglia” e così come sono obbligati per legge a non portare via il “capitale intellettuale dell’azienda”, allo stesso modo l’azienda dovrebbe smettere di utilizzare la proprietà intellettuale di chi se ne va! Invece, il più delle volte, se ne appropria totalmente e indebitamente, cancellandone completamente “il riconoscimento dell’autore”.
Questo è immorale ed eticamente scorretto da parte dell’azienda e di chi la guida: è un furto a tutti gli effetti. Peccato però che non sia perseguibile per legge!



venerdì 15 ottobre 2021

MAPPE MENTALI O MIND MAPPING: UNO STRUMENTO DI SICURO SUCCESSO APPLICABILE A 360 GRADI NELLA VITA PRIVATA E LAVORATIVA

BUSINESS E STRATEGIA


di Maria Lanzetta

Da alcuni anni e in svariati contesti abbiamo spesso sentito parlare di una metodologia basata sull’utilizzo delle mappe mentali, applicabile in diversi ambiti, sia lavorativi sia nelle vita privata. Le mappe mentali rappresentano uno strumento particolarmente efficace, come supporto all’elaborazione del pensiero e alla creatività, come ausilio nell’orientamento personale, nell’apprendimento e nell’organizzazione del lavoro sia individuale, sia di gruppo.

Ideata dallo psicologo e cognitivista inglese Tony Buzan nella seconda metà degli anni 60, tale metodologia consiste in una rappresentazione grafica del pensiero e del flusso delle nostre idee, attraverso cui vengono tracciati su un foglio, che sia di carta o digitale, i percorsi della conoscenza mediante associazione. Si tratta di un metodo che non richiede l’acquisizione di tecnologie specifiche, utilizzabile da ciascuno di noi, poiché si basa sul funzionamento del nostro cervello e che fa leva sulla naturale predisposizione della mente umana a ragionare per immagini e ad associare dati per ottenerne informazioni, strutturare percorsi, attività e prendere decisioni.

La mappa mentale quindi sfrutta la forza evocativa della mente che, attraverso delle rappresentazioni grafiche combinate con del testo, riesce a dare concretezza e forma alle nostre idee e a visualizzarle in maniera più definita.
La caratteristica fondamentale e peculiare delle mappe mentali sta nella loro struttura ad albero che viene tracciato mediante un approccio “associazionista”: si procede con libera associazione mentale, iniziando da un elemento centrale, agganciando man mano nuovi elementi verso l’esterno della struttura ed eventualmente modificando quelli già inseriti, secondo una logica di ramificazione.
La creazione delle mappe mentali, così come concepita da Buzan, si basa di fatto su tre elementi fondamentali: l’utilizzo di immagini accattivanti, l’impiego di colori vivaci e contrastanti, l’uso di singole parole chiave per sintetizzare ed esprimere concetti.
La mappa mentale è quindi uno strumento che dà spazio alla creatività, facilita la memorizzazione, aiuta nell’annotazione in chiave personale e, allo stesso tempo, contribuisce anche all’armonizzazione all’interno di un gruppo di lavoro, permettendo un aumento della produttività individuale e di team, favorendo così collaborazione e condivisione, oltre che a una maggiore autostima e consapevolezza di sé.

Mappe Mentali nel lavoro e in azienda

Le Mappe Mentali rappresentano indubbiamente uno strumento innovativo in diversi ambiti aziendali: management, attività operative, interazione tra reparti e con gli stessi clienti. Una mappa mentale può rivelarsi davvero utile come strumento a sostegno della gestione del lavoro in quanto permette facilmente di definire gli obiettivi strategici, formulare un progetto, gestire in modo ottimale tempo e scadenze, monitorare le varie fasi di execution, redigere una documentazione testuale, report, analisi etc., in base al ruolo che ogni singolo individuo svolge all’interno dell’azienda.
Le aree di applicazioni sono dunque molteplici e in ciascuna si può adottare la metodologia del mind mapping in modo molto specifico e personalizzato.
A livello direzionale l’utilizzo delle mappe mentali consente un maggiore allineamento del management nella gestione dei processi, nella definizione degli obiettivi, nella pianificazione e monitoraggio delle attività dei diversi gruppi di lavoro, nella stessa gestione delle risorse e infrastrutture. Mentre a livello di operatività, tale metodologia permette di migliorare la produttività individuale e di reparto, perché consente di avere ben rappresentati i propri singoli obiettivi e quelli dell’intero team, riuscendo a individuare immediatamente eventuali criticità e intervenire con possibili soluzioni.

Se poi entriamo nello specifico dei vari dipartimenti aziendali, ci rendiamo conto come le mappe mentali siano applicabili con successo in base alle peculiarità dei dipartimenti stessi. In area marketing e commerciale, per esempio, consentono di sviluppare analisi di mercato (trend, domanda bisogni),  di definire una strategia di go-to-market ben chiara e un flusso di lavoro per fasi sequenziali e parallele, permettendo inoltre una totale sintonia e trasparenza tra i team marketing e sales, aspetto nevralgico per un processo di vendita di successo. Mentre nell’ambito delle comunicazione e relazioni esterne, il mind mapping è particolarmente valido per costruire messaggi efficaci, chiari e coerenti, attraverso cui veicolare l’immagine dell’azienda e l’affidabilità del brand. Nei diversi dipartimenti tecnici, inoltre, l’utilizzo delle mappe mentali è un ottimo ausilio per rendere efficienti e ottimizzati i processi di progettazione, ricerca e sviluppo, ingegneria di prodotto, manutenzione e assistenza, favorendo una costruttiva interazione con gli altri reparti aziendali.

L’adozione di una metodologia basata su mappe mentali presenta, quindi, dei vantaggi fin troppo evidenti che vanno dall’integrazione tra manager e tra team, a una più chiara definizione degli obiettivi, a una migliore capacità di analisi e decisionale, a una maggiore abilità di comunicazione e negoziazione, stimolando creatività, immaginazione e soprattutto un atteggiamento costruttivo, riducendo notevolmente frustrazione e stress.

Uno strumento dunque di sicuro successo per formare, sviluppare e accrescere la propria professionalità. Impariamo a utilizzarlo e a farlo nostro!

Articolo analogo anche su: NewsImpresa - MindUp Pentaconsulting



mercoledì 1 settembre 2021

LE NUOVE SFIDE NEL SETTORE DELLA MOBILITÀ: DALL’ERA MECCANICA A QUELLA ELETTRICA

TECNOLOGIA


di Maria Lanzetta

Ormai sono numerosi gli studi che confermano un dato allarmante evidenziato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS): l’inquinamento atmosferico uccide circa 7 milioni di persone all’anno in tutto il pianeta, soprattutto a causa delle emissioni di anidride carbonica che ormai quasi ovunque superano i limiti previsti. 

Ma quali sono i principali responsabili delle emissioni di CO2? Industria, consumi energetici domestici e trasporto, in modo particolare quello su strada: i veicoli “tradizionali” risultano essere il mezzo più inquinante in assoluto.  La conferma di questo è il dato di fatto che durante il lockdown, quando tutti eravamo chiusi in casa, la qualità dell’aria era nettamente migliorata. Ma forse questo ormai lo sappiamo da un po’: non avevamo certo bisogno del Covid per accertarlo! Eppure, ancora non siamo arrivati a una svolta risolutiva, per quanto poi già da diversi anni si è compreso che una delle soluzioni per ridurre l’inquinamento atmosferico e le emissioni di gas serra è rappresentata dai veicoli elettrici, una tecnologia che potrebbe portare a importanti sviluppi futuri per la creazione di un mondo più sostenibile, ma su cui ci sono ancora diverse questioni aperte, fondamentalmente legate ai costi finora molto alti, all’autonomia – in termini di durata e ricarica delle batterie - del veicolo stesso e, forse, a una certa resistenza da parte della stessa industria automobilistica con relativi OEM e fornitori.

Indubbiamente l’industria dell’auto ha subito, negli ultimi dieci anni, una mutazione profonda: una certa sensibilizzazione al problema della sostenibilità ambientale, del riscaldamento globale e una nuova attenzione verso uno stile di vita più sano ha portato l’uomo, se non proprio a fare a meno dell’auto, a metterne in discussione l’utilizzo, tendendo a ridurlo e a cercare soluzioni alternative. Possedere un auto di grande cilindrata con un motore “rombante”, non è più uno status symbol, come lo è stato negli ultimi tre decenni scorsi. Quindi, necessariamente il mercato dell’automotive deve reinventarsi e riproporsi in maniera innovativa, puntando sia sulla creazione di veicoli efficienti e alternativi, sia su un modello di business diverso (pensiamo, per esempio, al car sharing). L’industria automobilistica si trova, dunque, di fronte a sfide e opportunità in termini di innovazione tecnologica senza precedenti, se sarà capace di interpretare i cambiamenti e i nuovi bisogni della società.

Questo stravolgimento epocale evidenzia la necessità di migliorare i sistemi di progettazione e i processi di ingegneria attuali che, di fatto,  sono il risultato di cento anni di evoluzione del settore automobilistico; richiede nuovi strumenti in grado di lavorare in sintonia con le attività di produzione e i fornitori per garantire maggiore qualità, sicurezza e affidabilità per i nuovi veicoli.

Che ne sarà di tutte le aziende che fino ad ora hanno ruotato intorno al mondo dell’automobile?

Le vetture elettriche possiedono molti meno componenti rispetto a quelle a carburante e richiedono meno lavoro manuale. Tutto ciò che oggi i meccanici offrono agli automobilisti, non servirà più alle auto azionate da energia elettrica, saranno aboliti il grasso lubrificante, i filtri del motore, la sostituzione delle candele o il semplice cambio dell’olio.

Non esisterà più il concetto del “portare la macchina dal meccanico”, quanto piuttosto quello di andare presso centri specializzati che forniranno servizi, eseguiranno aggiornamenti di software e installazioni di nuove App e, certo, si occuperanno della sostituzione degli pneumatici, ma in generale cambiano completamente le competenze richieste, approccio e metodologia di intervento.

Cosa succederà, dunque, alla vasta filiera di OEM e fornitori  che fino ad oggi hanno sviluppato e fornito tutta la complessa componentistica legata all’auto?

La risposta è fin troppo ovvia: o soccombono o si reinventano.
Si tratta, infatti, di una modificazione quasi genetica, uno vera e propria mutazione del DNA dell’auto!

A questo riguardo l’ANFIA (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica) è andata ad analizzare  i cinque domini propri dell’industria dell’automobile - powertrain, telai, interior, exterior  ed elettronica – per poter tracciare una possibile evoluzione di questi ambiti nei prossimi dieci anni.  Quello che emerge in maniera chiara è la netta  discontinuità rispetto al passato in ambito powertrain, in quanto più dell’85% dei componenti diventerà obsoleto, anche in considerazione del fatto, come si è detto, che la vettura elettrica ha un numero di componenti decisamente inferiori rispetto a quella tradizionale (si passerà da 1400 componenti a 200 circa), in compenso verranno introdotte nuove  piattaforme completamente integrate per la trasmissione. Ancora, alcuni componenti tradizionali dovranno necessariamente subire un’evoluzione, quali i sistemi di raffreddamento e trasmissione, per rispondere ai nuovi requisiti richiesti dalla configurazione ibrida e dalle batterie. Nei veicoli ibridi, per esempio, lo stesso motore a combustione interna deve essere ridotto di dimensioni, mentre le diverse parti delle vetture quali ruote, pneumatici, freni, sospensioni devono essere in linea con le nuove caratteristiche dei veicoli elettrici. Allo stesso tempo, verranno introdotti nuovi componenti quali appunto batteria elettrica - cuore pulsante delle automobili full electric -, elementi elettronici vari e, ovviamente, motore elettrico, con degli standard tecnologici più sofisticati.

Indubbiamente, la connettività della vettura rappresenterà un fattore chiave e abilitante delle nuove funzionalità del veicolo; questo determinerà una significativa evoluzione delle caratteristiche della plancia e dei comandi in termini di Human Machine Interface, di accesso alle informazioni necessarie per la guida autonoma, di centraline molto più efficienti nella capacità di elaborare i dati in tempo reale e di interazione attraverso il cloud, oltre a un forte focalizzazione sulla cyber security e relativi sistemi antifurto “smart”.  Le vetture del prossimo futuro, inoltre, saranno sempre più dotate di sensori, videocamere e radar che permetteranno notevoli livelli di autonomia e di controllo del veicolo stesso, a costi sempre più accessibili.
Un altro aspetto estremamente importante è legato all’esperienza a bordo, infatti il crescente interesse da parte degli utenti verso la guida autonoma, spinge gli OEM verso l’ottimizzazione degli stessi  interni che dovranno essere pensati per soddisfare le esigenze dei conducenti e dei passeggeri durante il viaggio, progettando veicoli a configurazione variabile, a seconda del tipo di utilizzo e di utilizzatore del veicolo. In tutto ciò, il ruolo del software sarà nevralgico e rappresenterà l’elemento differenziatore tra i vari OEM, in quanto è quello che va a influire molto sull’esperienza a bordo. 

Come conseguenza di tutto ciò inoltre, come si accennava all’inizio, l’avvento del veicolo elettrico determinerà la nascita di nuovi servizi quali per esempio sistemi di ricarica rapida, soprattutto nell’ottica di lunghe percorrenze, o di riciclaggio delle batterie, dando così vita a nuovi mercati.

Quindi, alla luce di quanto emerge dalle diverse analisi e studi di mercato, è evidente che questa svolta epocale nell’industria dei trasporti, che vede una progressiva transizione dalla meccanica all’elettrico, può rappresentare una grande opportunità per molte aziende – a tutti livelli – in questo settore: tutto sta nel decidere di affrontare il cambiamento senza esitazioni, avendo la capacità di reinventarsi, innovarsi, acquisendo nuove competenze,  ampliando i propri orizzonti e adottando nuovi modelli di business.

Lo stesso articolo è stato pubblicato anche su NewsImpresa - MindUp Pentaconsulting